La morte delle cose digitali

MySpace è morto. Second Life è morto. Facebook forse morirà. Lo si sente dire spesso: ma i media muoiono davvero?

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Photocredit: Simon Hildrew/Flickr CC[/caption]

“Il Web è pieno di rovine”, sostiene l’artista greco Andreas Angelidakis. In Rete, infatti, è facile imbattersi in luoghi un tempo abitati e rigogliosi, ora decadenti e in disuso: Second Life, ad esempio, doveva diventare un nuovo standard della Rete, elevando all’ennesima potenza il concetto di networking, ibridandolo con la realtà virtuale. Non è andata esattamente così e quel progetto non è più un fenomeno di massa.

Lo stesso si potrebbe dire di MySpace, che per una generazione di ora quasi-trentenni all’inizio degli anni 2000 era stato uno dei cancelli di ingresso al mondo del Web 2.0, salvo poi venir rinnegato e abbandonato in favore di quei social media che ora dettano l’agenda di tutto il mondo digitale, Facebook e Twitter in primis. Storia simile quella di FriendFeed, ora in pressoché totale disuso.

Ma a leggere certi lanci della stampa specialistica e non, il ciclo di vita di qualsiasi entità e prodotto digitale o tecnologico si sarebbe fatto ancora più breve o, meglio, sarebbe messo a repentaglio di continuo dall’obsolescenza e dall’ascesa, al contrario, di altri progetti e prodotti destinati a prendere il sopravvento e a spazzarli via. Spesso, troppo spesso, si dà per scontata la fine di prodotti o piattaforme tecnologiche alla prima avvisaglia di semplice concorrenza o al primo errore strategico compiuto dal management in questione. Con un gusto per l'iperbole che spesso ha ben pochi contatti con la realtà dei fatti.

Qualche mese fa, ad esempio, si è letto in più parti della possibile se non imminente scomparsa di Facebook, possibilità addirittura comprovata da uno studio empirico di Princeton, secondo il quale il social network di Mark Zuckerberg sarebbe stato destinato a perdere la maggior parte dei suoi utenti entro il 2017.Nonostante quello studio sia stato smontato pezzo per pezzo dai data scientist di Menlo Park e rimanga controverso, per molte testate giornalistiche la morte del social network era più che certa se non scientificamente provata.

La lista dei condannati a morte tecnologici, comunque, è fitta. La stessa sorte, per fare qualche esempio, è ciclicamente toccata alle mail, alle homepage dei siti di news, alla social tv, a Twitter - per il quale è già stata scritta anche l’elegia funebre -, al “morto che cammina” Google+, ai lettori Mp3, alle console per videogiochi, ai personal computer e sostanzialmente a qualsiasi cosa tecnologica si possa cercare su Google insieme alla dicitura “is dead”. Prìncipi di questo climax di obsolescenza? I giornali, la cui fine viene periodicamente annunciata, smentita, confermata, ribadita e posticipata.

La questione, comunque, è figlia di un mix di ragioni: semplificazione giornalistica e ansia da titolo forte in prima battuta, il culto della disruption costante e senza sosta e certe effettive dinamiche accelerate del mondo digitale che amplificano questo genere di possibilità.

Ma le cose digitali come i social media muoiono veramente? E se sì, quando? Quando, insomma, è legittimo annunciare la morte di un medium? Ne abbiamo discusso con due studiosi che si occupano di Rete e media: Giovanni Boccia-Artieri, Professore ordinario di Sociologia dei New Media e Internet Studies e Comunicazioni pubblicitaria e linguaggi mediali presso l’Università Carlo Bo di Urbino e Gabriele Balbi, Assistant Professor in Media Studies presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano.

La sensazione della prossima scomparsa di un medium o uno strumento, secondo Boccia Artieri, si potrebbe spiegare alla luce del fatto che “spesso le analisi sulla morte di una piattaforma o di un sito di social network si basano sulla proiezione futura di una tendenza del presente che non tiene conto della possibilità di modifiche strutturali del mezzo o di una mutazione di comportamenti e pratiche d’uso”.

Mutazioni che non sono nuove o caratteristiche specifiche solo del contesto digitale, spiega Balbi: “anche mass media come radio e TV, per esempio, si sono reinventati, sono rinati decine di volte fino a diventare anche digitali e, ogni volta, questa rinascita implica tecnologie, politiche, modelli di business e soprattutto valenze sociali diverse”. Da questo punto di vista, anche Giovanni Boccia Artieri concorda: “non tenere conto della complessità evolutiva di tecnologie e pratiche e delle loro relazioni risulta miope”.

Il digitale, ovviamente, ha accelerato e favorito processi di obsolescenza, ma allo stesso tempo ha dato alle piattaforme e ai media modi di reinventarsi e agli utenti la possibilità di adattare e mutare l'uso di questi strumenti: “abbiamo visto ad esempio come Facebook stia spacchettando le sue funzioni: giornalismo su Paper, conversazioni su Messenger, spiega Boccia Artieri, “e come l’uso di Facebook da parte degli utenti giovani stia cambiando, ridefinendolo come un deposito di momenti da ricordare attraverso le immagini, come è per compleanni, lauree, eventi a cui si partecipa”.

Anche per Balbi sono fondamentali gli elementi e gli usi consolidati portati in auge da determinate piattaforme, più che le piattaforme di per se stesse: “farei attenzione al tipo di caducità: social media o piattaforme possono essere momentanee e sparire velocemente, ma alcuni elementi si sono consolidati; per citare alcuni esempi, il concetto di social come condivisione del proprio spazio di retroscena à la Goffman, il video sharing, oppure le app per smartphone. Tutti questi sono strumenti e istituzioni sono duraturi al di là del brand che, in un determinato momento storico, ne assume il monopolio”.

La lettura di questi processi mediali, inoltre, è spesso complessa e si presta a interpretazioni su diversi livelli: di utilizzo, sociali e tecnologi insieme: “in realtà dovremmo leggere il tutto come un ecosistema complesso che muta tra ambienti dominanti e nicchie nuove”, spiega Govanni Boccia Artieri, “un ecosistema che vede forme di rimediazione mediale, come lo specificarsi di un uso che magari prima era sullo sfondo, in cui pratiche e tecniche si sollecitano a vicenda, all’interno di una logica di mercato. Una nicchia poco abitata resta comunque disponibile nell’evoluzione e può trovare nuove forme di viability evolutiva”.

Questo è avvenuto per molti degli esempi citati in precedenza. Lo stesso Second Life, ad esempio, ora viene utilizzato come spazio creativo e terapeutico per le persone affette dal morbo di Parkinson. Restando sempre nell'alveo degli esempi citati, anche la vicenda di MySpace, per Giovanni Boccia Artieri, è emblematica: "MySpace da social network privilegiato dei giovani e poi di molti adulti muta nel tempo quando Facebook occupa la nicchia evolutiva e diventa un ambiente adatto a musicisti per promuoversi e diffondere musica, per essere poi depredato da altri sistemi come Spotify". Non morte, quindi, ma rimediazione e riadattamento.

Ma i media possono davvero morire, in definitiva? Gabriele Balbi ha una risposta chiara: “I media non muoiono quasi mai, ma si rimediano e si trasformano sempre. L**e tecnologie lasciano in eredità alcune delle loro caratteristiche che si sono rimediate, ovvero riproposte in forme diverse, nei nuovi media: l’sms ricorda da vicino il telegramma, il telex o il fax sono embedded nella e-mail, la televisione per certi versi è dentro YouTube”.